The chrysalis and the butterfly

  1. Sintesi del progetto

Lo scopo del progetto consiste nel predisporre un’attività autobiografica all’interno dei penitenziari per promuovere e favorire la riconsiderazione del passato dei detenuti e la riprogettazione del proprio futuro “oltre le sbarre”.

All’interno delle carceri, la scrittura è sempre stato un modo di comprendere se stessi, esprimendo speranze e desideri, acquisendo la consapevolezza del tempo che passa, riflettendo sul proprio passato e immaginando una vita nuova e diversa. Nel penitenziario, la scrittura rappresenta perciò un’attività creativa che aiuta a sopravvivere e perseguire uno spazio per la libertà. Diventa uno strumento per scoprire nuovi “mondi” e nuovi modi di auto-espressione.

Partendo da questa premessa, il progetto mira a “raccogliere” le esperienze di quei detenuti che, attraverso narrazioni legate alla propria vita, al lavoro, alle sofferenze e ad episodi dell’universo carcerario, cercano e desiderano trovare nuove prospettive e opportunità per il loro futuro. Questi “mondi”, questi estratti dell’esistenza verranno raccolti e illustrati con mezzi di narrazione, corrispondenza epistolare, poesia, musica, fotografia e video. I risultati di ogni workshop autobiografico, cioè una sintesi di tutti i materiali prodotti su entrambi i supporti cartacei e multimediali (CD Rom, video e così via), saranno divulgati a tutti i penitenziari coinvolti nel progetto e pubblicati sul web.

 

  1. Metodologia

 

Proponiamo 9 percorsi che consentano al detenuto, attraverso il sistema autobiografico, di progettare la sua esistenza “oltre le sbarre”

  1. Il volo della farfalla. Il detenuto racconta o scrive operando scelte, andando avanti e indietro nel passato, riflettendo sul presente e sul futuro, compone una trama della propria esistenza carica di senso e di consapevolezza. Quindi l’autobiografia è il metodo autoformativo per eccellenza, strutturato non solo sulla scrittura, ma anche sull’oralità (il colloquio narrativo) e altre forme del racconto di sé.
  2. Il laboratorio autobiografico: costruire insieme “pezzetti di storie”

Il laboratorio è soprattutto un luogo di analisi e costruzione delle identità personali degli individui partecipanti. E’ implicita la necessità di partire dalle storie dei soggetti e dai vissuti personali. Parlare di laboratorio implica “costruire insieme qualcosa”, quindi la presenza di un gruppo: è indispensabile un numero discreto di partecipanti, massimo venti, in modo che il lavoro possa essere condiviso, scambiato e i ricordi e le rievocazioni dell’uno servire da stimolo agli altri, diventando un’importante risorsa.

  1. Focus sulla persona. Il gruppo autobiografico è mirato alla persona, a far emergere, attraverso il ricordo, parti di sé dimenticate, memorie belle e meno belle della propria storia: in ogni caso la rievocazione è sempre attivata in un contesto prevalentemente ludico e non terapeutico, piacevole e stimolante.
  2. Il sé per gli altri. Il gruppo attivato con il laboratorio produce effetti positivi per quanto riguarda l’immagine di sé: essa, infatti, può essere ridefinita in positivo non solo attraverso un rapporto empatico all’interno di una relazione educativa ma come possibile elemento di rispecchiamento nei rapporti tra pari”.
  3. La farfalla, le farfalle. La coralità dei vissuti, il feedback, il rispecchiarsi, in misura più o meno intensa, nella storia del compagno, conoscere se stessi e gli altri in modo diverso, tutto ciò produce un’importante ricaduta sia sul piano personale che interpersonale. I temi esistenziali trattati nel laboratorio autobiografico, proprio per loro natura, accomunano le diverse fasce d’età e le differenze psicologiche, sociologiche, etniche e culturali esistenti nella popolazione carceraria. Riconoscersi negli altri attraverso esperienze comuni rassicura e rafforza colui che ha paura dei propri sentimenti, rendendolo consapevole che essi non sono poi così strani: diventa possibile manifestarli e condividerli.
  4. La condivisione. All’interno dei laboratori autobiografici è importante lo svolgimento di una serie di esperienze individuali che poi verranno – quasi sempre – condivise con il gruppo. L’attività di laboratorio porta a sviluppare un’attenzione alle differenze individuali e alle storie di vita degli altri. I laboratori autobiografici si avvalgono del binomio inscindibile che utilizza l’immediatezza dell’oralità e   la profondità della scrittura di sé.
  5. Il diritto alla parola: fare autobiografia in carcere. La storia del deviante, spesso, è raccontata solo dalle parole e dalla relazione dello psicologo, dell’educatore, dell’assistente sociale, dell’avvocato: molti detenuti, nella propria vita, non hanno mai avuto un reale diritto di parola, non hanno mai potuto esprimere veramente se stessi, i propri stati d’animo, le proprie rabbie, le proprie emozioni e riflessioni. Avere qualcuno che ascolta con rispetto e senza giudizio, è un privilegio per pochi (non solo in carcere!). Accogliere la biografia aiuta il detenuto/narratore a sentirsi accolto e questo facilita il processo di accettazione di sé. È lui il protagonista attivo nel corso del viaggio autobiografico, è lui il co-costruttore del percorso, l’operatore è solo colui che fornisce gli stimoli, chiarisce le regole del gioco e restituisce il lavoro prodotto.
  6. Il laboratorio che riprogetta il futuro. L’utilizzo del metodo autobiografico nasce dal bisogno di sviluppare occasioni educative per “andare oltre” le sbarre, oltre gli ostacoli al cambiamento e si inserisce in una concezione di disagio visto come momento di vuoto, di mancanza, di coercizione, ma anche come un’occasione di cambiamento, l’unico modo per fermarsi.
  7. Tra dentro e fuori. Infine, intendiamo approfondire attraverso il metodo autobiografico è l’esplorazione di una zona particolare della detenzione ancora poco esplorata che si colloca tra “il dentro” e “il fuori”, ovvero la zona del fine pena. Il percorso che intendiamo attivare con i detenuti che si avvicinano all’uscita dal carcere è un lavoro di orientamento per riprogettare il futuro prossimo percorrendo la tematica del “mito del fuori” e la solitudine che spesso li accompagna in questo momento di passaggio.

 

  1. Motivazione

La motivazione di questo progetto scaturisce dalle difficoltà incontrate dal personale educativo (educatori, docenti, volontari, ecc) nello svolgimento della loro professione in ambienti carcerari. A differenza dell’insegnamento ordinario nelle scuole, l’istruzione in carcere implica variabili, legate al contesto, all’organizzazione della prigione, ai detenuti, alle regole, all’organizzazione oraria, che influenzano le attività didattiche e la rendono estremamente complessa.

La peculiarità degli specifici destinatari (sia in attesa di giudizio o già condannati) influenza la loro partecipazione alle attività educative. Lo stesso si può dire per i detenuti che lavorano, a causa della possibile coincidenza delle sessioni di lavoro e didattiche.

Per questi motivi, gli insegnanti coinvolti nel partenariato proposto mirano a condividere le proprie esperienze, discutere di metodologie didattiche e confrontare le pratiche efficaci, nonché le criticità incontrate. Questo approccio implica un’analisi dei metodi generalmente adottati nell’educazione delle carceri e, in particolare, una maggiore attenzione a quelli praticati da ciascuno degli istruttori. In altri termini, l’approccio implica la sincera valutazione delle proprie competenze e dei limiti, della motivazione e dei profili professionali necessari in un contesto significativamente complesso.

Infatti, l’impatto ambientale del funzionamento in carcere è strettamente legato al “mondo atomizzato”, dove i valori generalmente riconosciuti generano una varietà di atteggiamenti contrastanti. In questo “mondo atomizzato” l’inganno e la disonestà spesso prevalgono sull’affetto e sulla cooperazione. È un mondo di individui la cui vita è costantemente caratterizzata da frustrazioni, infelicità, rassegnazione, ostilità, desiderio di vendetta: il “self-word”, un universo cioè centrato sul proprio egoismo e sulla individualità negativa. In questo contesto, dove predomina la mancanza di interesse, i nuovi arrivati – detenuti appena condannati o in attesa di giudizio – entrano nel gruppo di persone già detenute e vi si mescolano. Così il processo di carcerazione determina “l’accettazione, su un livello superiore o inferiore, delle tradizioni, degli stili di vita, delle abitudini e della cultura generale del penitenziario”. Ogni individuo detenuto subisce, in una certa misura, la prigionia. Il detenuto si trasforma in una figura anonima, in un gruppo subordinato, condizionato dall’ambiente circostante. Ne deriva che la riabilitazione è controbilanciata dalle influenze negative della cultura carceraria. Tuttavia, alcuni di questi individui, anche se in rari casi, mostrano la loro volontà di riabilitarsi, staccando dalle loro esperienze, evitando contatti con altre persone, prospettando la pianificazione di un nuovo futuro onesto di vivere una volta che saranno di nuovo liberi.

In questo contesto si colloca l’iniziativa degli educatori per cambiare la condizione dei detenuti, spesso ostacolata dai lunghi tempi didattici e da interruzioni che possono svuotare il lavoro svolto. Di conseguenza, consideriamo “l’adulto come un allievo che ha bisogno di apprendere”. Riteniamo che il potenziale dell’educazione in carcere sia notevolmente elevato; tuttavia, visto che il disavanzo culturale dei detenuti è chiaramente visibile, i loro atteggiamenti alla cultura sono spesso influenzati dalla loro bassa autostima, dalla mancanza di prospettive e aspettative. La loro paura di affrontare un’esperienza di apprendimento, nella maggior parte dei casi, rifiuta ogni possibile offerta educativa o culturale.

Gli educatori della prigione sono impegnati ad aiutare gli studenti a imparare in un contesto particolare. Sono consapevoli delle caratteristiche sperimentali del loro lavoro – che richiede creatività e flessibilità – ma anche della mancanza di base teorica di riferimento.

Il compito degli istruttori di carcere è quello di nutrire le radici della conoscenza, ricostruendo una conoscenza partendo dalle esperienze e dalle competenze dei detenuti. Offrono nuove possibilità ma sono limitate dalle peculiarità sia del contesto che dei detenuti stessi.

Gli obiettivi educativi devono essere realistici, realizzabili, non troppo impegnativi. Gli educatori del carcere devono trovare un equilibrio tra il possibile scoramento, derivato dalla routine, e la convinzione di un cambiamento profondo e radicale degli studenti detenuti, presupposto per un profondo coinvolgimento critico nella missione educativa.

È innegabile, tuttavia, che l’istruzione in carcere è veramente una possibilità quasi unica: è un’offerta culturale e, allo stesso tempo, un’occasione per il confronto e lo scambio con il mondo esterno in un contesto in cui la relazione “dentro / fuori” è determinante per rendere i detenuti consapevoli dei loro bisogni educativi e culturali inespressi o inconsci.

 

 

  1. Obiettivi

L’obiettivo del progetto è quello di predisporre un’attività autobiografica all’interno dei penitenziari per promuovere e incoraggiare la riconsiderazione del proprio passato e la pianificazione del futuro “oltre le sbarre”.

Obiettivi

  • Creare uno spazio per riflettere su argomenti specifici e consentire ai detenuti di ridefinire la propria vita dopo l’esperienza in carcere;
  • Rafforzare l’identità e l’autostima;
  • Incoraggiare e motivare i detenuti a descrivere le proprie esperienze personali e a comunicare – anche in un contesto europeo – le difficoltà di vita all’interno delle prigioni;
  • Confrontare i risultati del progetto Erasmus con esperienze simili in altri penitenziari europei;
  • Comunicare il lavoro prodotto alle reti regionali che operano all’interno dei penitenziari;
  • Divulgare i documenti cartacei e multimediali prodotti a conclusione dello stesso progetto;
  • Condividere i risultati del progetto con i partner europei coinvolti;
  • Rendere la metodologia scelta (autobiografia) una pratica didattica comune nei processi educativi destinati agli adulti detenuti.